Italicarum
Scriptores del
Muratori, edito dalla Zanichelli. In occasione dei grandi eventi
cittadini, era lui che produceva le scritte su tela o legno: i
suoi pennelli dettero titoli, slogan e colori alle molteplici
manifestazioni promosse dal regime fascista negli anni ’30 in
città: il raduno dopolavoristico alla villa della Montesca dopo
il 1933, la Settimana Tifernate e il raduno regionale dei
tipografi a Fontecchio nel 1937, le Giornate della Tecnica nei
primi anni ’40. Il piccolo laboratorio Sisi – lo chiamò
“Ars et Labor” – si situava all’angolo tra via San
Florido e via Battisti; l’ adiacente “piazza della
Gramigna” – ora del Garigliano – gli offriva l’opportuno
spazio per dipingere gli oggetti di maggiori dimensioni. L’
ambiente tifernate, nel quale pure si inserì con disinvoltura,
non poteva però offrirgli soddisfazioni economiche, tanto che
comincio a guardarsi intorno per poter allargare la propria
attività e condurre una vita meno grama. Fino ad allora non
aveva effettuato che modesti lavori di restauro, ma i contatti
con l’ ambiente antiquario di Firenze gli fecero intravedere
un promettente futuro in questo settore. Per il rinnovo del
catasto urbano, collaborò alla redazione delle planimetrie dei
palazzi, facendo in modo che
gli venissero consegnati quelli con soffitti e
sotterranei che potevano conservare mobili in abbandono. Quindi
cominciò a prendere nota della gran quantità di mobili in
disuso e bisognosi di restauro di cui le famigli volentieri si
sbarazzavano; pezzi spesso privi di pregio, ma antichi,
autentici e soprattutto acquistabili con poca spesa. Avviò così
l’ attività di restauratore e antiquario, con orizzonti
dapprima modesti. Il giro d’ affari però crebbe dopo la
guerra. Trasferita la bottega in via dell’ Ariento, dove
abitava, Sisi prese ad acquistare tutto il mobilio d’ epoca
che gli capitava fra le mani. Dopo il restauro, riusciva a
rivenderlo con buoni risultati. Si fece un estesa clientela,
soprattutto forestiera, che lo indusse in un primo momento a
tenere qualche apprendista, poi a stimolare altri artigiani a
dedicarsi al restauro. Contestualmente però, stava maturando la
svolta che avrebbe prodotto straordinari effetti sullo sviluppo
economico di Città di Castello. Sisi intuì infatti i limiti
locali del commercio antiquario, con la difficoltà di rifornire
il mercato dei pezzi richiesti: alcuni non se ne reperivano più
nella quantità sperata, altri stavano diventando introvabili.
Ebbe cosi l’idea di riconvertire qualche vecchio mobile,
ricavandone il legno d’epoca per costruire un pezzo del tutto
nuovo, ma in stile antico. Sisi avrebbe così rievocato – a
mo’ d’esempio e con un pizzico d’ironia – una delle
prime esperienze in tal senso: “Le soffitte tifernati
abbondavano di seggette, detti anche “canteri”, che erano
mobili di cui tutti volentieri si disfacevano, perché il loro
uso era tramontato [si trattava di servizi igienici mobili
utilizzati specialmente per malati anziani; avevano un coperchio
e dei braccioli laterali, n.d.a.]. Ne feci così una raccolta e
pensai a trasformarli in bar o giradischi; poi la prima
soluzione fu la preferita. Tolsi il vaso, che non era da fiori,
ci misi due tavolette di legno antico per posare le bottiglie e
i bicchieri, e così, restaurati e lucidati, andarono a ruba
[…]” . Quindi, ricordava Sisi, “iniziai a realizzare
tavolini con le gambe a lira, servivano come consolle. Andarono
[anch’ essi] a ruba. La realizzazione di altri mobili fu
consequenziale”. Erano i primi avventurosi passi dell’ ora
fiorente industria tifernate del “mobile in stile”. Dapprima
il mobilio da riciclare veniva raccolto per lo più localmente.
La progressiva penuria di approvvigionamento non irretì lo
scaltro e dinamico Sisi:”Girai in camion mezza Italia e
riportai in parte ciò che mancava, oltre il materiale da
lavoro, come casse nuziali, cassettoni da trasformare.” Una
buona mano gliela dette Andrea Pannacci, che ancor prima di lui
si era avventurato nel commercio antiquario in un epoca, la
seconda metà degli anni ’30, assai poco propizia a tal genere
di affari (“N se vendéa la ròba manco a regalala; n aéa na lira nessuno!”).
Nel dopoguerra Pannacci fu l’inesauribile fornitore di Sisi
sia di pezzi di valore antiquario, sia di vecchio mobilio
destinato allo smantellamento. Lo Prelevava specialmente nell’ Appennino
umbro-marchigiano,dove “ricercatori” locali approfittavano
del momento propizio per acquistare per poche lire soprattutto
le casse nuziali, tradizionali contenitori del corredo della
sposa, che più moderne tendenze dell’ arredamento e la
maggiore diffusione dell’ armadio stavano facendo passare di
moda. Ben pochi, allora, espressero perplessità per il rischio,
connaturato dalla nuova industria della ricostruzione di mobili
con legno riutilizzato, di stravolgimenti stilistici e in
particolar modo di inconsapevoli distruzioni di antico mobilio.
Riconoscono ora in molti: “Quanta ròba de valòre aémo
tritato!Ma a qui tèmpi n ci se renda cònto”. Vi è una ricca
aneddotica di armadi di sacrestia rimpiccioliti per renderli
vendibili, di inginocchiatoi smantellati per farne comodini, di
tante casse e cassoni di buona fattura demoliti senza
apprezzarne il valore, di dipinti di cospicue dimensioni
sezionati per ricavarne piccoli quadri commerciabili. Anche
Rodolfo Siviero, che frequentava Città di Castello alla ricerca
di occasioni di antiquariato e manteneva buoni rapporti con Sisi,
ebbe modo di manifestare critiche per la spregiudicatezza di
quei primi anni del nuovo ramo di artigianato tifernate. Proprio
di un nascente indirizzo produttivo, infatti, si trattava. Sisi
aveva fatto la scelta di non restaurare
o fabbricare direttamente i mobili, bensì di distribuire
il lavoro tra un nutrito gruppo di fidati collaboratori. Le sue
botteghe divennero quindi il punto di commercializzazione di
manufatti realizzati da falegnami, per lo più giovani, che
talvolta lui stesso avviava al mestiere con pazienza e aiutava
poi a mettersi in proprio. “Fu mia cura scegliere gli
apprendisti: ma fui costretto a prendere quelli che non avevano
fatto i falegnami, perché nessun falegname si adattava a
lavorare il legno antico”. Per questi giovani, molti
provenienti dalla campagna e solo in alcuni casi con l’
esperienza della Scuola Operaia, Sisi fu un provvidenziale
benefattore: ne valorizzò il talento e le inclinazioni,
contribuì a far conoscere tecniche operative del tutto nuove
nell’ ambiente locale, assicurò la commercializzazione dei
prodotti. In virtù della sua maestria nel disegno, mise a
disposizione dei collaboratori progetti dettagliati e di
facile lettura, redatti sulla base delle richieste del cliente.
Sisi seppe pertanto sospingere su livelli superiori di
professionalità artigiani che mancavano di basi culturali e di
competenze specifiche. Lui stesso autodidatta, non aveva mai
disdegnato di consultarsi con persone di maggior cultura e ora
trasmetteva con entusiasmo conoscenze e senso estetico ai suoi
falegnami restauratori. Per i più intraprendenti, la sua stessa
attività antiquaria forniva preziosi spunti didattici: “La
nostra “scuola” oltre agli insegnamenti di Sisi, è stata la
possibilità di disporre di tanti mobili antichi e di valore nei
suoi fondi; li si guardava, li si smontava, li si copiava. Era
come avere un museo in casa.” Un vero museo di ebanisteria –
ma allora da essi assai trascurato – i falegnami lo avevano a
pochi metri, nel palazzo Vitelli alla Cannoniera ripristinato
nel 1912 da Elia Volpi. Questi, in modo geniale e spregiudicato,
all’inizio del Novecento aveva indicato la strada di un
commercio antiquario e di un gusto dell’ arredamento nel quale
conviveva mobilio antico con altro restaurato riutilizzando
elementi d’epoca o costruito ad imitazione di stili dei secoli
precedenti. Era stato lui, in una fase storica in cui abbondava
l’offerta di oggetti di antiquariato e veniva “accettata la
manomissione di mobili d’epoca per ragioni di restauro, se non
di arbitraria valorizzazione”, a rifornire un nuovo mercato di
alta borghesia e proiettato oltre oceano. Quarant’anni dopo un
altro antiquario tifernate, Cesare Sisi, benché di assai più
modeste ambizioni e basi culturali, ridava vitalità a
intuizioni dell’illustre concittadino e forniva allettanti
risposte alle attese della vasta e moderna clientela del periodo
della ricostruzione e della rinascita economica post- bellica..
Ma mentre l’opera di Volpi non aveva provocato un apprezzabile
impatto nell’economia locale, Sisi scuoteva il fragile tessuto
dell’artigianato del legno, creando i presupposti per la
nascita in città di una nuova generazione di produttori. Le vie
del quartiere del Prato, specie via dell’Ariento e via dei
Casceri, si trasformarono cosi in una peculiare e frammentata
officina di falegnameria, con artigiani indaffarati in piccoli
fondi e spesso per strada, tenuti insieme dal carisma di Sisi e
dall’interesse comune. Di lavoro ce n’era per tutti; anzi,
l’indotto tendeva ad allargarsi proprio per le
specializzazioni che tale tipo di produzione richiedeva: il
tornitore, il doratore, il lucidatore, il tappezziere,
l’impagliatore, il tessitore di stoffe, il pittore, il
restauratore, il fabbro. Il sabato sera questi artigiani
passavano alla spicciolata per la bottega di Sisi, il quale, tra
un cliente forestiero e l’altro, li pagava per il lavoro
svolto nella settimana. Puntuale nel pagamento, “tirava”
però sul compenso quanto più poteva; garantiva a tutti commesse sicure
e sapeva come tutelare il suo ruolo. La fama di Sisi e dei
Falegnami del Prato si diffuse
rapidamente nel centro Italia e una vasta clientela
prese visitare la città, specie nei fine settimana, attratta
da occasioni di antiquariato e, in maniera crescente, dalle
apprezzate ricostruzioni o ricomposizioni di mobili negli
stili di altre epoche con legno antico riciclato. Solo in
seguito, a quanti richiedevano prodotti più economici,
sarebbero stati proposti
mobili di imitazione con legno nuovo, talvolta
sapientemente “invecchiato”. Proprio rifuggendo dalla
facile tentazione di produrre falsi manufatti di antiquariato,
l’artigiano del legno tifernate ebbe modo di avviarsi verso
una dimensione nuova e una robusta credibilità. Soprattutto
il riuso del legno vecchio di mobili, cassapanche, travature
per soffitti, pavimenti lignei per la riproduzione dei
manufatti d’epoca si dimostrava nel contempo in armonia con
la filosofia del recupero tipica della cultura contadina e con
l’ambizione del migliore artigianato di costruire pezzi
unici e apprezzati, nella lucidatura, dal proverbiale “olio
di gomito”. Ha scritto Livio Dalla Ragione:”Ridare vita al
vecchio legno, riutilizzare una vecchia porta. Le travi, le
finestre, per poter costruire credenze, cassettoni, armadi,
fratini, piattaie e alzate, è prerogativa di questo onesto e
rigoglioso artigianato che non mistifica usando termini
impropri quali “mobili restaurati”o “fortemente
restaurati”, perché l’artigiano, abile ed esperto, dice
solo “l’ho fatto io”, e vende il suo mobile dando tutte
le informazioni, raccontandone la storia”. |