A fianco dei falegnami, sempre nel quartiere del
Prato, in quegli anni videro la luce altre piccole botteghe che
li rifornivano di componenti necessarie
all’opera di restauro e di fabbricazione di mobili in
stile o che, nell’ambito dello stesso settore artigianale,
svolgevano particolari e autonome fasi di lavorazione. Il primo
laboratorio tifernate di doratura del dopoguerra lo apri
casualmente Livio Dalla Ragione in via dei Cavalieri: si
dilettava di pittura e, li nel suo studio, volle imparare a
costruire da sé le cornici per i quadri. Dopo un po’ prese
produrne anche per altri e, d’intesa con Sisi, a dedicarsi al
restauro di superfici dorate. Non aveva precedente esperienza al
riguardo, né in città vi era allora chi potesse insegnare il
mestiere: Dalla Ragione imparò quindi adorare “rubando con
gli occhi” i segreti di qualche artigiano fiorentino che
andava a visitare e sforzandosi di mettere in pratica i
procedimenti letti in vecchi testi. Nella sua bottega si formò
Lisimaco Bioli, detto “Chico”, che poi procedette per conto
proprio a pochi passi di distanza, all’imbocco di via dell’Ariento,
diventando doratore di fiducia di Sisi. Dopo di lui, Livio prese
con se un altro apprendista, Giulio Cerrini. Tanta era la
richiesta di lavori di doratura che questi, talvolta, di buon
mattino, andava a dare una mano ai Fodaroni; non di rado doveva
recarsi in lontane chiese di campagna per il restauro sul luogo
di grandi cornici. A Dalla Ragione si affiancò poi Giuseppe
Petruzzi, già apprendista in botteghe di falegnameria; anche
lui, di lì a poco, aprì una propria attività. Da loro apprese
i primi rudimenti Elsa Fodaroni, pure ella presto audacemente
attratta dalla prospettiva di lavorare in totale autonomia. Tra
le tante cose acquistate da Sisi , vi erano vecchi mobili e
arredi di chiesa e sacrestia che presentavano fregi e rifiniture
e altri elementi dorati. Per i pezzi di maggior valore – non
molti in verità – si procedeva al restauro; gli altri
venivano smantellati per riutilizzarne le parti nella creazione
di nuovi e raffinati mobili: parecchi vecchi altari in disuso
diventarono capiletto o specchiere. Dal momento che gli elementi
antichi di reimpiego erano dorati, bisognava applicare la giusta
patina d’oro nelle sezioni mancanti intagliate dai falegnami
nello stile originale. Ricorda Petruzzi:”Eravamo autodidatti.
Ho letto tanti libri, anche vecchi, sull’argomento. Poi si
stava lì in bottega, la sera fino a mezzanotte, a fare gli
“intrugli”, per imparare, e ci si sprovava finchè non
venivano come volevamo. Rifacevamo la doratura con il metodo
antico. Bisognava trovare la formula giusta: a oro zecchino, ad
argento, a mecca […] Era difficile realizzare chimicamente una
doratura che non si distinguesse da quella della parte vecchia e
recuperata del mobile. Poi gli si dava una patina, procedimento
anch’esso difficile, perché gli ori dei diversi secoli hanno
patine differenti. E non è roba da pennello: sono foglie dorate
finissime e delicate. Anche per i doratori il primo e principale
committente fu Sisi; ma col tempo ampliarono considerevolmente
la clientela. Rilevante importanza nel ciclo di lavorazione
dell’arredamento in stile assumeva l’opera
dell’intagliatore. Oltre all’esecuzione di pezzi originali,
c’era da ricostruire gli elementi mancanti di quelli in
restauro Il migliore scultore in legno di Città di Castello era
allora Romolo Bartolini, che non si dedicò però a questo
genere di lavoro. I falegnami del Prato poterono invece contare
sull’abilità e sulla competenza di Augusto Brozzetti.
Istruttore e poi caporeparto ebanisteria della Scuola Operaia,
tenne per un po’ un laboratorio al Prato, poi nella sua Lerchi.
Girava per le botteghe del quartiere con la borsa da professore
in pelle per riconsegnare gli intagli di piccole dimensioni
eseguiti, come i “ricci” delle cornici, e ritirare nuove
commesse.
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