Una modesta bottega
di falegname, una “boteghina” , non era dotata che di banco
di lavoro con morsa, tre o quattro seghe amano di diversa
grandezza , martelli, tenaglie, raspe, lime, pialle e giallicci
per i vari usi; inoltre, per chi sapeva intagliare, qualche
scalpello (“scarpèli”),”sgorbie” e “stracantòni”. Tutti attrezzi
per la lavorazione a mano. I pochi falegnami che tenevano un tornio, spesso
costruito con le proprie mani, lo avevano a pedale. Realizzavano da se anche
altri attrezzi; alcuni “ferri”, invece, li facevano fare, magari su loro
disegno, a un fabbro. |
Fabbricazione di
mobili in stile nella bottega di Arnaldo Granci: il falegname della foto è
Giuseppe Zanchi (anni Settanta) |
Poi ci voleva un carretto per andare a “smacchinare”da Agnellotti o da Cristini
tavole e tavoloni
acquistati nelle segherie o direttamente in campagna, dai
proprietari dei boschi. Oltre a tagliare le tavole, capitava di
dovervi fare lavori più sofisticati, impossibili senza
ricorrere alle loro macchine elettriche, come ad esempio la toupie (“tupìa”) per eseguire le cornici dei mobili. La
diffusione del macchinario elettrico sarebbe avvenuta, come per
le piccole officine dei fabbri, dopo la seconda guerra mondiale.
Solo allora cominciarono a diffondersi le seghe a nastro, i
torni elettrici e le “tupìe”. Gli attrezzi metallici,
specie la sega a mano, abbisognavano di attenta manutenzione;
così, affinché funzionassero meglio, venivano unti con il
grasso del “bilico” dei maiali, una specie di budello appeso
al muro e conservato non salato. La bravura di un falegname, dal
momento che si evitavano i chiodi nei manufatti più raffinati,
dipendeva in modo rilevante dalla perfezione degli incastri. La
colla, un tempo, la preparava da sé. Era una “colla di
pesce”, resistentissima. La si applicava calda sul legno
stringendo con i “sergenti” le due superfici incollate. Poi
c’era la colla a “caldo” tedesca, detta “quadròna”:
la si metteva a bagno, talvolta per una nottata, quindi la si
scaldava senza farla bollire, infine la si applicava. Per
lucidare immobili più raffinati, come i canterani, si usava la
“gomma lacca”, sciolta nell’ alcool (“alcole”). Ci si
imbeveva uno straccio di lana o della bambagie e si provvedeva a
strofinare, ripetendo con la mano innumerevoli movimenti “a
otto”, finchè il mobile non diventava “lustro”.
Contestualmente si aggiungeva anche un pizzico di pomice, che
“induriva” il liquido e contribuiva a otturare eventuali
fori nel legno. Dopo la “gomma lacca” si dava la cera , sia
sui mobili di casa, sia su tavoli, casse, cassoni. Era la cera
d’api, che i falegnami preparavano sapientemente,
sciogliendola con acqua ragia o trementina. Ognuno aveva il suo
metodo. Alcuni aggiungevano un po’ di pece greca, perchè non
si appiccicasse. Quindi la davano a caldo sui mobili,
lucidandoli con uno straccio. Venivano usati anche degli oli.
Per gli infissi andava bene l’olio di lino cotto che
impregnava e garantiva impermeabilità al legno. Innanzi tutto
si puliva l’infisso con la carta vetrata, poi si stendeva una
superficie molto sottile di olio cotto. Ai mobili invece si dava
l’olio crudo di lino o l’olio paglierino. Quindi si
“pomiciava”, cioè vi
si passava sopra con carta vetrata o molto sottile o consumata;
infine, dopo aver lasciato asciugare, si poteva lucidare con
“gomma lacca” e alcool.
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